lunedì 19 gennaio 2015

Lunedì Film: Per un pugno di dollari. Sergio Leone

Roma nella prima metà degli anni sessanta era un posto interessante. Cinecittà nella prima metà degli anni sessanta era un posto interessante. Finita la "Hollywood sul Tevere", finita la "Dolce vita", rimanevano in circolazione alcuni professionisti che dalle produzioni statunitensi avevano ricavato un bagaglio professionale notevole. E scenografie avanzate dai kolossal. Il Peplum, per chi è una personcina fine, o il Sandalone, per chi masticava quel mondo del cinema, aveva permesso di sfornare decine di film dalla trama assai fantasiosa, ma che davano da mangiare ad esercenti, registi, attori, scenografi eccetera. Spesso gli italianissimi lavoratori usavano pseudonimi americani (più tardi incontreremo Bob Robertson, Don Savio, John Wells).

Uno dei registi di sandaloni era un figlio d'arte, Sergio Leone, che aveva ottenuto un discreto successo con "Il colosso di Rodi" e conosceva molti validi professionisti. 

Qui inizia la parte misteriosa della storia. Nel 1963 qualcuno va a vedere un film di Akira Kurosawa: La sfida del samurai, e ne consiglia la visione a Leone. Sono in tanti a contendersi questo onore (Enzo Barboni e Sergio Corbucci sono in pole position); Leone va, vede, e rimane entusiasta.
Decide di creare un trattamento su questo samurai doppiogiochista, e invece di ambientare il tutto a Creta o ad Atene, per l'ennesimo film in costume, sfrutta un altro filone in decadenza negli USA e abbastanza fiorente in Europa, a causa degli scenari perfetti offerti dall'Andalusia: il Western. All'inizio del 1964, con il titolo provvisorio de "Il magnifico straniero", la sceneggiatura è pronta e viene sottoposta alla Jolly Film. Qui il mistero continua: non si sa come, il tanto necessario acquisto dei diritti del film di Kurosawa non avviene, e, ottenuto un modesto budget grazie ad una coproduzione Italo-Tedesco-Spagnola (che giustifica i numerosi attori teutonici presenti), Leone girerà un film copiato scena per scena da quello di Kurosawa.

Gli attori da ingaggiare dovevano avere a quel punto una ferrea caratteristica professionale: costare poco. Gian Maria Volonté, grande attore di teatro, era nei guai finanziari per una produzione teatrale andata malissimo, e viene via con poco. Apparirà come John Wells, ed in un'intervista a "L'Unità" burlerà questo film che stava girando solo per soldi. Il protagonista, invece, sarà un osso duro da scegliere: costava troppo Richard Harrison, attore americano di Peplum, idem per Cliff Robertson. Charles Bronson e James Coburn nemmeno presero in considerazione la sceneggiatura. Lasciamo perdere Henry Fonda.

Un'addetta della William Morris di Roma, Claudia Sartori, propone per 15.000 dollari un attore che era stato protagonista in un western televisivo statunitense: Rawhide. Leone non è convinto pienamente, ma Clint Eastwood è alto e costa poco, e per ora va bene così.

Il set è in Spagna, ed è condiviso con una produzione (Le pistole non discutono), su cui la Jolly Film puntava molto di più e che aveva budget maggiore.  Cosa mancava? Uno scenografo, scelto per caso, Carlo Simi, che per colpo di fortuna era ferrato in architettura messicana, e un autore di colonne sonore. 
Ennio Morricone non colpisce Leone, anche se scoprono al primo appuntamento di lavoro di essere stati compagni di scuola elementare. Ma quello c'è.

Il film viene girato con grosse difficoltà, perché i co finanziatori spagnoli si tirano indietro, ma nell'estate 1964 la pellicola è pronta per il mercato. Viene acquistata da un solo cinema a Firenze, con grande opera di convincimento di Leone. Questi film rimanevano in cartello al massimo una settimana, e questo sembra il destino del "Magnifico straniero", che nel frattempo è diventato "Per un pugno di dollari". 

Gli incassi del fine settimana sono modesti, ma il lunedì accade qualcosa. 

Gli incassi salgono, e salgono nei giorni a venire. 

Leone convince il proprietario del cinema a tenere su il film, e dopo due settimane inizia a girare per Roma, dicendo che a Firenze il film è un successone (ed è vero); il passaparola aveva convinto sempre più gente a vedere quel film a basso costo. Che era, cinematograficamente parlando, rivoluzionario. Non seguiva i canoni del western americano, con i buoni e i cattivi lindi e pinti, e non seguiva il codice Hayes, che non permetteva di inquadrare contemporaneamente lo sparo e la vittima che cadeva. Non ci sono praticamente donne, e quelle che ci sono non corrispondono allo stereotipo di angelo del west. Il film "monta", e arriva nel grosso giro cinematografico con incassi eccezionali. 

E qui casca l'asino, anzi, casca il samurai. Perché i legali di Kurosawa si arrabbiano assai: il film è un plagio bello e buono, parte la causa di risarcimento danni. 

Cosa fanno gli avvocati della Jolly Film? Sostengono che c'è un archetipo comune ai due film, un archetipo occidentale. Gli avvocati nipponici ribattono: "Ah sì, e quale?". Silenzio. Tonino Valeri salva un po'il tutto, richiamando agli avvocati "Arlecchino servitore di due padroni" di Goldoni. 
Pari e patta, si conclude con un accordo tra le parti, Leone dovrà una bella fetta degli incassi a Kurosawa.

Il film parte per il mondo, partono le carriere di parecchie delle persone che abbiamo citato e parte anche la Trilogia del dollaro, di cui riparleremo.

Con questo "mattone" di post partecipo al Lunedì Film di Iome!

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