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lunedì 9 marzo 2015

Lunedì Film: Carlo Vanzina, Vacanze di Natale

Natale 1983: la piccola Economa passeggia dalle parti del Brancaccio assieme ad una ciurma di altrettanto piccoli parenti. Tornato nel luogo della riunione familiare, il gruppuscolo ha qualcosa da raccontare: nel cinema teatro c'era "uno famoso". Il capello cotonatissimo anni ottanta intravisto dalla strada era quello di un giovane Christian De Sica; l'attore racconterà spesso che in quei giorni stava facendo con ansia il tour dei botteghini di Roma per verificare gli incassi del suo film appena uscito.


Vacanze di Natale



Lo so, è uno sporco lavoro, ma qualcuno doveva farlo. Oggi recensiremo il padre di tutti i cinepanettoni, verrò espulsa dal Lunedì film di IoMe e forse anche dalla blogosfera, ma è un fardello che portavo da troppo tempo ed ho deciso che il momento è giunto.

Partiamo dall'anno: nel 1983 in Italia gli anni Ottanta non erano propriamente iniziati, almeno non come ce li ricordiano oggi. Il 1980 era stato l'anno del riflusso, nel 1982 avevamo vinto i mondiali ed avevamo liberato Dozier, ma ancora il decennio di piombo aleggiava tra noi, tanto che mentre in Gran Bretagna i ragazzi del Blitz avevano cancellato il punk con l'ondata New Wave e New Romantic, qui nel 1982 c'era stato un forte revival degli anni sessanta, visti come un periodo di dorata innocenza, ed un successo inaspettato per il film Sapore di Mare di Carlo Vanzina. Figlio del grandissimo Steno, in coppia con il fratello Enrico Carlo Vanzina aveva girato una manciata di film, soprattutto con comici televisivi (torneremo sull'argomento) lanciando tra gli altri Abatantuono nella sua prima fase. Il produttore De Laurentiis, stupito dal successo del film balneare, affida ai Vanzina l'incarico di girare una nuova pellicola dall'impianto simile, ma ambientata sulle piste da sci; i due, che come molti della buona borghesia romana frequentavano Cortina d'Ampezzo, non se lo fanno ripetere due volte avendo già pronta la location (curiosità: Carlo Vanzina tra il 1982 e il 1983 girò sei dicasi sei film). 

La location quindi c'era: Cortina agli inizi degli anni ottanta era ancora ben frequentata, gli impianti sciistici del 1956 ritenuti ancora accettabili, con un'aura di esclusivo. Due anni prima ci era passato persino James Bond (For your eyes only)! Anche il canovaccio di storia già c'era, basato sul mix di incontri-scontri di caratteri, strati sociali e provenienze geografiche utilizzato in Sapore di Mare.

E gli attori?

Avevamo accennato ai comici televisivi: alla fine degli anni settanta la Rai produsse una serie di spettacoli innovativi, a cui parteciparono anche giovani provenienti dai teatrini di tutta Italia. Uno fu Non Stop, con regia di Enzo Trapani e casting di Giancarlo Magalli, da cui emersero tra gli altri tali Carlo Verdone, Zuzzurro e Gaspare,  La Smorfia (Arena-De Caro-Troisi in rigoroso ordine alfabetico, scelta che porterò avanti anche per gli altri ensemble), I Giancattivi (Benvenuti-Cenci- Nuti) ed un gruppo veronese proveniente dal Derby di Milano: I Gatti di Vicolo Miracoli. I Gatti avevano passato varie formazioni e varie traversie televisive (erano attivi da quasi dieci anni) quando, finalmente, fanno il salto. Dal 1978 al 1981 ottengono numerose scritture televisive e girano due film (Arrivano i Gatti e Una vacanza bestiale) diretti indovinate da chi? Bravi, da Carlo Vanzina. Purtroppo le due pellicole non ebbero molto seguito e i Gatti stavano passando un periodo di stasi quando Vanzina decise di scritturare solamente uno dei membri per il successivo "I fichissimi": Jerry Calà, qui assieme ad Abatantuono, riscuote un successo assolutamente imprevedibile e i produttori iniziano a puntare su di lui come promessa comica degli anni ottanta. Calà lascia i Gatti (che continueranno per qualche anno in formazione a tre Oppini-Salerno-Smaila) e Vanzina lo scrittura anche per Sapore di Mare. E Vacanze di Natale. 

Abbiamo sfiorato l'argomento Non Stop e Carlo Verdone: Verdone prenderà il volo ben presto con "Un sacco bello" e nei suoi film successivi scritturerà in piccole parti suo cognato, Christian De Sica, fino a quel momento in balìa di ruoli televisivi di attor giovine (Bambole, non c'è una lira per la regia di Antonello Falqui) e cinematografici di non grande peso. De Sica si scopre comico, e Vanzina lo testa in Sapore di Mare come rampollo di buona famiglia svampito ed elegante. Giusto giusto quello che serviva per il giovane Roberto Covelli di Vacanze di Natale.

Una scommessa fu invece Claudio Amendola: l'unica sua parte di rilievo era stata in uno sceneggiato drammatico del 1982 (Storie d'amore e d'amicizia), ma quella faccia da giovane simpatico (e molto romanista, perché non dimentichiamo che nel 1983 la Roma aveva vinto lo scudetto) era adatta a Mario, il figlio del "Macellaro di Viale Marconi" (Mario Brega, sempre immenso). 

Una piccola disgressione: nel periodo della Riforma Rai furono lanciati anche Roberto Benigni (L'Altra Domenica di Renzo Arbore) e Beppe Grillo (Luna park, grazie allo scouting di Pippo Baudo). 

Giusto per.

Vi ho detto che gli anni ottanta in Italia non erano ancora propriamente incominciati: lo stereotipo del milanese è infatti quello dell'industrialotto arricchito di mezza età (Milan l'è un gran Milan), e non del giovane rampante operatore di borsa accompagnato dalla modella (Milano da bere). Guido Nicheli che ti entra in pelliccia al Cristallo di Cortina ("Ah ah... Ivana, fai ballare l'occhio sul tick! Via della Spiga, Hotel Cristallo di Cortina: 2 ore, 54 minuti e 27 secondi... Alboreto is nothing!!") accompagnato da Stefania Sandrelli (sempre bellissima e che nello stesso anno avrà un incredibile rilancio con "La Chiave" di Tinto Brass) è in fondo lo specchio di un tempo che va svanendo.

Sarà Yuppies del 1986 a celebrare il fenomeno del rampantismo, con un cast arricchitosi di due comici. Ezio Greggio è nel pieno boom del Drive In in cui erano confluiti i comici di "La Sberla", programma Rai del 1978 per la regia di Giancarlo Nicotra. Massimo Boldi dopo la gavetta del Derby e di Antenna3 (come spalla di Teocoli) era approdato in RAI con "A tutto gag" di Romolo Siena e stava, a quaranta anni, assaporando il sucesso. 


Torniamo a Bomba, il film praticamente è fatto: la trama è esile (corna e bicorna, per farla breve), le situazioni prevedibili (a parte il colpo di scena sulla sessualità di Roberto Covelli), ma la pellicola funziona.

De Sica racconterà in seguito che su quel film si è giocato la carriera (accennando anche a problemi economici dovuti alla disastrata situazione lasciata dalla morte del padre) e che la scommessa aveva funzionato: era nato il cinepanettone, che ci portiamo ancora avanti oggi dopo trentadue anni. 

Enrico Vanzina in una splendida intervista racconterà cosa è cambiato dopo tre decenni per i romani che frequentavano Cortina.

Jerry Calà uscirà alla fine degli anni ottanta dal "giro" delle commedie, sostituito dai Vanzina e poi da Neri Parenti con Massimo Boldi.

E'iniziato un piccolo mito.

Per l'attimo del chissenefrega due note linguistiche: per essere un capomastro di Frascati, l'avvocato Covelli parla un dialetto romanesco fantastico. Sul serio. Più o meno come il dialetto trentino che parlano i cortinesi.


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lunedì 23 febbraio 2015

Lunedì film: Luigi Filippo D'Amico "Guglielmo il dentone"

Negli anni sessanta e settanta i cinema italiani ospitarono spesso i cosiddetti "Film a episodi", in cui tre o più micro film venivano collegati da un filo conduttore, a volte assai flebile. 

Alcuni di questi episodi ebbero uno strano destino, cioè quello di risplendere di luce propria. Accadde così per il terzo ed ultimo episodio di un film del 1965 "I complessi", in cui il primo e secondo ("Una giornata decisiva" di Dino Risi con Nino Manfredi e "Il complesso della schiava nubiana" di Franco Rossi con Ugo Tognazzi) seppur godibili non vengono quasi mai ricordati. 

Il terzo invece è entrato, da subito, prepotentemente, tra le pietre miliari della Commedia all'Italiana, con un personaggio che è diventato un idolo per parecchi "secchioni": Guglielmo Bertoni o, per tutti "Guglielmo il dentone". 


Un ruolo strano per Alberto Sordi (che con Luigi Filippo D'Amico aveva lavorato in "Bravissimo"): non è il solito Sordi piccino, meschino e crudele di tante commedie. Qui Sordi è un aspirante al ruolo di annunciatore del telegiornale che sarebbe addirittura odioso per la sua competenza, se non confessasse di aver accudito la madre malata e di aver dovuto quindi rinunciare a molte ambizioni. Ha anche un difetto che lo rende umano (la sua guida è a dir poco sportiva) e un'incredibile ed evidentissima dentatura che dovrebbe stroncarne qualsiasi velleità televisiva. 

Il concorso a cui Guglielmo partecipa ha già un vincitore annunciato: Francesco Martello, bello e fidanzato di Gaia Germani, allora popolare attrice (e co protagonista del film, come altri famosi volti televisivi dell'epoca), un Franco Fabrizi in uno dei suo tanti, troppi ruoli da sbruffone. La commissione ovviamente fa di tutto per favorire Martello e fermare la corsa di Bertoni. Quando iniziano le prove viene sottovalutato, passando incredibilmente il test video (con un'incredibile serie di scioglilingua), stupendo tutti con lo scritto (con citazioni anche in fiammingo) e scansando un'immotivata esclusione per motivi burocratici (ritardo nella consegna della raccomandata). Qui la commissione inizia ad essere influenzata dai complessi del titolo del film: nessuno vuole chiaramente dire a Guglielmo che non è telegenico, ma tutti vogliono escluderlo, sperando nell'ultima prova.

Ma è l'orale che crea il mito: riesce a dimostrare che il testo su cui sono state scelte le domande non è aggiornato e che quindi i suoi predecessori hanno fornito per gioco forza una risposta sbagliata.  Quando nei televisori di tutta Italia appare l'inconfondibile fisionomia del Dentone, gli spettatori sono prima perplessi, poi affascinati ed attratti dalla competenza, dal garbo e dalla bravura dell'outsider. 

Perché sono così affascinata da Guglielmo il Dentone? Perché, in fondo, siamo in tante/i ad essere come lui e vorremmo un mondo in cui il candidato più bravo vince. Con questo episodio partecipo ai Lunedì film di Iome


 

lunedì 16 febbraio 2015

Lunedì film: "Il Marchese del Grillo", Mario Monicelli

  C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
«Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
             
     Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.
            
     Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo».
            
     Co st’editto annò er Boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e arisposeno tutti: «È vvero, è vvero».

Giuseppe Gioacchino Belli, il 996, scrive questo sonetto (Li soprani der Monno vecchio) nel 1832. Partiamo, per il nostro Lunedì film grazie a IoMe, dal terzo verso, che è la battuta più celebre della nostra pellicola odierna. A Roma la citano continuamente, a volte con intento bonario, altre con crudeltà lucida. La crudeltà lucida con cui Onofrio del Grillo, marchese, evita un arresto irrimediabile per gli altri coinvolti ner fattaccio. 

Perché riesce nell'intento? Facile, perché nell'anno di grazia 1808, nella Roma papalina sconvolta da Napoleone, essere il Marchese del Grillo permette qualsiasi trasgressione, anche il vestirsi da popolano e girare per osterie assieme al fido Ricciotto. 

Agli occhi contemporanei, invece, l'arresto è evitato dal fatto che il Marchese del Grillo è Alberto Sordi. 

"Ah... me dispiace. Ma io so' io... e voi non siete un cazzo!" Lievemente modificata rispetto all'originale.

E'il 1981, e Monicelli e Sordi, due grandi cinici, due amanti di Roma, fanno coppia in una commedia amarissima sul ruolo del potere e dei privilegi acquisiti. Monicelli dirigerà l'anno successivo quella che è considerata l'ultima "Commedia all'italiana", il secondo atto di Amici Miei, e Sordi viene dalle esperienze degli anni settanta, in cui è stato protagonista di film molto più impegnati e impegnativi di quelli degli esordi. I due avevano già affrontato la prova impegnativa de "Un borghese piccolo piccolo" cinque anni prima e sconvolgono le carte in tavola. Va detto subito: il film funziona a tratti, ma in quei tratti ha fantastici lampi di genio. 

Del primo vi ho già parlato, ma non posso non citare il processo ad Aronne Piperno, in cui il povero ebanista ebreo (uno degli ultimi ruoli di Riccardo Billi) non riesce ad avere giustizia poiché il marchese ha corrotto chiunque per dimostrare che a Roma ha ragione chi è ricco. Il gesto finale del Marchese, che paga il doppio del dovuto all'artigiano e gli regala un piccolo podere per rifonderlo dell'umiliazione subita in quanto ebreo (pece e piume, giusto per) non fa che confermare la personalità megalomane di Onofrio, assurtosi a censore di un sistema di cui fa parte con grandissima soddisfazione. 

Altro momento magico è la scena di Gasperino il Carbonaro che licenzia l'amministratore infedele (Se tu me freghi qui, me freghi su tutto! Perciò sei un ladro; sei ladro tu, tu padre e tu nonno e io ve licenzio a tutti e tre) e quanti ricordi di alcune pagine del Gattopardo. 

Accanto a Sordi, che, come al solito giganteggia impedendo a chiunque altro di rubarli anche un angolino di scena, il già citato Riccardo Billi, il papa Pio VII di Paolo Stoppa (l'unico a poter tener testa al protagonista) che ha il pesante compito di pronunciare "Non possiamo. Non dobbiamo. Non vogliamo", il Don Bastiano di Flavio Bucci, il personaggio forse più drammaticamente autentico del film, un inedito Aurelio "Cochi" Ponzoni tra la fine del duo e la riscoperta degli anni novanta nel ruolo del cognato Rambaldo. Cioè un cast per cui oggi bisognerebbe fare carte falsissime. 

Il Marchese del Grillo è un film profondamente romano, della Roma sparita di Roesler Franz e della Roma corrotta di Belli, dei nobili e del popolino, del Papa Re e della Rivoluzione francese che avanza facendo finire il tutto. Superstiziosa, piccina, ottusamente conservatrice, la Roma papalina è il Marchese del Grillo, e solo Sordi poteva dare corpo a tutto questo. Tutto, scenografie stupende, costumi sontuosi, trama non sempre adeguata, sono semplici accessori alla recitazione di Sordi e alla regia di Monicelli. Al loro cinismo e alla loro crudeltà. 

Chiudiamo con una nota: la celebre battuta non è una novità nel cinema italiano. La dice Pippo Franco nei panni di Romolo in un film del 1976 Remo e Romolo - Storia di due figli di una lupa.

lunedì 9 febbraio 2015

Lunedì film. Luchino Visconti, Il Gattopardo

Ce l'avevo in mente da un po', la double feature libro e film. Sì, perché mi è venuta in mente la mia infanzia, quando sotto Natale trasmettevano i film animati di Asterix ed io ero delusa dalla voce dei doppiatori, perché nella mia testa Obelix aveva un timbro che non corrispondeva a quello che fuoriusciva dalle casse della TV.

Quindi parliamo de "Il Gattopardo", film del 1963.

 

Cosa dire del film di Visconti? Per prima cosa taglia tre macro sequenze: una è la visita di Padre Pirrone al paese natale, le altre due sono invece la morte del Principe e la cupa conclusione del romanzo. Il film finisce narrando l'alba della mattina dopo il ballo, con il presagio di morte che aleggia su Fabrizio senza essere portato a compimento.

L'ambientazione è magnifica, girata in gran parte in veri palazzi nobiliari (un consiglio, se vi capita di essere ai Castelli Romani visitate il Palazzo Chigi di Ariccia, dove è girato il dialogo tra il Principe e Chevally, poiché conserva alcuni pezzi unici quali le tappezzerie in cuoio), con un'attenzione particolare ai costumi. Claudia Cardinale ricordava le piaghe procurate dal busto (aggeggio che ha provocato ecatombi, non scordiamolo, poiché comprimeva gli organi interni in nome di giro vita minuscolo). 
Burt Lancaster, non la prima scelta di Visconti per il ruolo di Fabrizio e quasi imposto dalla produzione nell'inutile speranza di un successo di cassetta del film negli USA, diviene IL Gattopardo, con un trucco che addirittura crea una somiglianza con un felino, giganteggiando in tutto il film, quasi come nel libro.

E'su Tancredi e Angelica che trovo qualche pecca: bellissimi e giovanissimi, Delon e Cardinale potrebbero ben rappresentare la doppiezza dei personaggi (il primo, più che la seconda, fanno lampeggiare appena in qualche scena il profondo cinismo), ma Visconti non calca questo aspetto, evidenziando lo splendore più che la crudeltà. Molto più azzeccato il Cavriaghi di Mario Girotti (non ancora Terence Hill ed una delle tante ossessioni estetiche di Visconti), meno malizioso dei brillanti siciliani a cui deve far da paravento e pregno di un'innocenza che non si trova nella tormentata Donnafugata.
Il troncamento della trama non permette a Concetta (Lucilla Morlacchi, più attiva nel teatro che nel cinema) di esprimere la sua moralità tutta gattopardesca (nel senso della famiglia Corbera, non in quello successivo), chiudendosi nell'immagine di innamorata delusa. 

Un film che ha infine un incredibile pregio: pur durando più di tre ore (nella versione estesa), scorre sempre piacevole ed interessante. Da vedere e, se si ha davanti una lunga serata invernale o un caldo pomeriggio estivo, da rivedere con piacere. 

Per i Lunedì film di Iome.

domenica 1 febbraio 2015

Lunedì film: Febbre da Cavallo

Come nasce un film di culto? Cosa porta una pellicola di cassetta a diventare un successo a venti anni dall'uscita nei cinema? 

Con questo mio contributo per Lunedì film (che, penso, mi costerà l'espulsione immediata e motivata dalla rubrica) vorrei mettere in chiaro alcuni punti che, pur esistendo numerosissima letteratura sul film, non sono ancora stati analizzati. 

Parliamo di Febbre da Cavallo. 



Sarà una narrazione strutturata in tre parti: la prima intende far luce sul film e sugli attori, ed è ambientata nel 1976, la seconda è un intervallo che copre i destini dei protagonisti dal 1976 al 1995, la terza invece sul suo improvviso successo a metà degli anni novanta, e qui posso dire orgogliosa "Io c'ero".

La trama è semplice: tre amici, Bruno Fioretti detto "Mandrake", attorucolo e indossatore, Felice Roversi, parcheggiatore e Armando Pellicci, detto "Il Pomata", ex fantino, sono ossessionati dalle scommesse e dall'ippica. Quando, invece di puntare sulla Tris suggerita a Gabriella, fidanzata di Mandrake, da una cartomante ed effettivamente vincente, piazzano una scommessa su Antonello da Messina ("E lo guida Bocconi") perdendo un colpo da venti milioni ("Me servono 20 mijoni Mafa', 20 mijoni"), hanno l'unica possibilità di rifarsi facendo vincere il Gran Premio degli Assi a Soldatino dell'Avvocato De Marchis. 

A leggerla, una semplice trama da commedia come tante. Allora, perché? Partiamo dall'inizio. 

1976

Avete presente tutte quelle commedie a basso costo che escono sotto Natale con protagonisti comici televisivi? Febbre da Cavallo nasce come uno di questi film di cassetta. Perché a posteriori è facile dire "Uehlà, un film di Steno con Proietti e Montesano, chissà quanto sarà costato, e che successone sugli schermi!": in realtà, dopo l'epoca d'oro del sodalizio con Sordi e Totò (almeno sul piano economico, perché su quello della critica i due attori erano ancora ben poco considerati), Steno dirigeva anche tre film l'anno e non sempre dei capolavori o dei successi al botteghino ("Anastasia mio fratello" del 1973 fu firmato Stefano Vanzina, quasi volesse dividere questo film drammatico dal resto della produzione). Gigi (nei titoli Luigi) Proietti ed Enrico Montesano erano nel 1976 rispettivamente un attore soprattutto teatrale il primo (quasi travolto dal ruolo di Aldemar in "Alleluja brava gente" del 1970 ottenuto come sostituto improvvisato di Domenico Modugno) e televisivo il secondo (aveva inanellato una serie di successi in trasmissioni in cui faceva da spalla alla grandissima e mai troppo rimpianta Gabriella Ferri). Eh, ma c'era anche Adolfo Celi, l'Emilio Largo di Thunderball; sì, ma anche Celi (immenso attore e regista teatrale che aveva passato anni in Brasile) era spesso protagonista in televisione. Se nei primissimi anni settanta girò sia lo sceneggiato "Joe Petrosino" che un filmetto dal titolo "Amici miei", era in quel periodo più famoso per il primo che per il secondo (il Sassaroli! Non mi consideravano il Sassaroli!). Gli altri attori erano o emergenti (Marina Confalone aveva 25 anni e veniva dalla compagnia di Eduardo), in una fase di transizione (Catherine Spaak, da ninfetta a signora della televisione italiana) o solidi caratteristi (Mario Carotenuto, 167 titoli su IMDB).

Quindi "Febbre da cavallo" in origine era un film di cassetta, destinato ad una decente durata sugli schermi, ad incassare dignitosamente e a perdersi ben presto nel dimenticatoio come tante altre pellicole. Cosa che fece.

Intervallo

Io non so se sia stato "Febbre da Cavallo" a portar fortuna, ma  per i due protagonisti il 1976 diviene un anno magico. 

Gigi Proietti, assieme a Roberto Lerici, autore di "Fatti e Fattacci" che nel 1975 aveva portato l'attore romano ad intraprendere un interessante sodalizio con Ornella Vanoni, scrive un one man show che doveva rimanere in cartellone per sei giorni, dato che il genere in Italia non era molto conosciuto e apprezzato. Peccato che il titolo dello spettacolo fosse "A me gli occhi, please", ancora ricordato come una delle pietre miliari del teatro capitolino: 300 repliche, e carriera di Proietti decollata definitivamente.

Enrico Montesano, nel 1977 è protagonista di "Quantunque io", spettacolo televisivo trasmesso a colori di Rai 2 (gli spettacoli con la Ferri erano girati a colori, e così li vediamo nell'archivio Teche Rai, ma erano trasmessi in bianco e nero perché la televisione a colori in Italia iniziò nel 1977). Anche qui, enorme trampolino per l'attore romano, che diviene un volto popolarissimo di cinema, teatro e tv per tutti gli anni ottanta.

L'opera di Steno viene presa di nuovo in considerazione.... quando i figli Enrico e Carlo diventano i precursori del cinepanettone, inanellando una serie di successi di cassetta e costume per almeno un decennio.

Adolfo Celi entra nel mito grazie al Sassaroli, pur passando per una triste esperienza televisiva con "I Borgia" nel 1981 (trasmessa nel Regno Unito, la serie soffrì molto per la pronuncia poco british di Celi, e viene ricordata come un fiasco); ne viene rivalutata tutta l'opera.

La Spaak lancia nel 1988 "Harem" e lo conduce per 15 anni con garbo e classe. 

Marina Confalone appare in una robusta serie di film, e gradisco più ricordare "Così parlò Bellavista" (in cui è perfettamente in parte) rispetto a "Il Marchese del Grillo" in cui è stereotipata. 

Ennio Antonelli (Manzotin), noto volto della Cinecittà meno blasonata, era stato caratterista nel vanziniano Sapore di Sale e attore non protagonista nel ruolo di Spartaco Sacchi ne "I ragazzi della terza C", serie televisiva ancora ben impressa nelle giovani menti. 

Passano gli anni ottanta, passano i primi anni novanta ed arriviamo al....

1996

Gigi Proietti ottiene un enorme successo come "Maresciallo Rocca": parte con 8 milioni di spettatori, chiude con 15 milioni. La serie viene promossa da Rai 2 a Rai 1 ed è un fenomeno televisivo.

MA

Non esistono solamente le grandi stazioni televisive, ne esistono anche di locali; a Roma da qualche anno è popolare Super 3 (che ha purtroppo cessato le trasmissioni nel 2013), soprattutto per il suo buon portafoglio di cartoni animati anche dedicati ad adolescenti e giovani adulti (ci passeranno anime come Ranma 1/2). Quindi parecchi universitari sclerati bazzicavano quel canale soprattutto all'ora di merenda, circa verso le 17.00, quando i neuroni hanno bisogno di una pausa dopo ore passate a litigare con lo studio. Tra di loro, la scrivente e il di lei fratello, allora entrambi facenti parte della categoria.

A metà pomeriggio Super 3 trasmetteva dei film a basso costo, ed in un periodo ne ruotava due: il primo era "Due strani papà" con Pippo Franco e Franco Califano, regia di Mariano Laurenti, con una storia comunque interessante da raccontare. E'una commedia del 1984 mai uscita nei cinema, perché al momento della distribuzione il Califfo fu coinvolto in una brutta vicenda giudiziaria per cui passò qualche tempo in carcere, prima di venire totalmente prosciolto nel 1987. I grandi spettacoli televisivi del Bagaglino inizieranno proprio in quell'anno e Pippo Franco vivrà una stagione di record di ascolti: la sua carriera cinematografica, anche quella in gran parte sotto l'ala di Pingitore, viene un po'tralasciata e "Due strani papà" entra direttamente nel circuito delle tv locali. 

Il secondo è "Febbre da cavallo". Il virgulto universitario capitolino medio (e il virgulto universitario fuori dal GRA medio) iniza a memorizzare intere parti dei dialoghi; a mensa, si inizia a parlare citando le battute. La VHS del film (eh già, siamo nel periodo pre youtube, ma in cui c'era già la possibilità di fruire dei film a casa), rarissima, diviene merce di scambio preziosa (io ce l'avevo!). 
Si iniziano a cercare le location del film (ancora oggi a volte c'è più gente davanti al Gran Caffé Roma che alla scalinata dell'Ara Coeli lì di fronte). Il vecchio film di cassetta con attori televisivi era maturato in un buon film con attori famosissimi, un regista finalmente apprezzato ed una serie di situazioni e dialoghi esilaranti.  

Inizia la sua storia di film cult, con cui partecipo ai Lunedì Film di Iome (che avrebbe ragione a lapidarmi a causa dei miei gusti cinematografici).  


« Chi gioca ai cavalli è un misto, un cocktail, un frullato de robba, un minorato, un incosciente, un regazzino, un dritto e un fregnone, un milionario pure se nun c'ha na lira e uno che nun c'ha na lira pure se è milionario. Un fanatico, un credulone, un buciardo, un pollo, è uno che passa sopra a tutto e sotto a tutto, è uno che 'mpiccia, traffica, imbroglia, more, azzarda, spera, rimore e tutto per poter dire: Ho vinto! E adesso v'ho fregato a tutti e mo' beccate questa... tié!. Ecco chi è, ecco chi è il giocatore delle corse dei cavalli. »









lunedì 19 gennaio 2015

Lunedì Film: Per un pugno di dollari. Sergio Leone

Roma nella prima metà degli anni sessanta era un posto interessante. Cinecittà nella prima metà degli anni sessanta era un posto interessante. Finita la "Hollywood sul Tevere", finita la "Dolce vita", rimanevano in circolazione alcuni professionisti che dalle produzioni statunitensi avevano ricavato un bagaglio professionale notevole. E scenografie avanzate dai kolossal. Il Peplum, per chi è una personcina fine, o il Sandalone, per chi masticava quel mondo del cinema, aveva permesso di sfornare decine di film dalla trama assai fantasiosa, ma che davano da mangiare ad esercenti, registi, attori, scenografi eccetera. Spesso gli italianissimi lavoratori usavano pseudonimi americani (più tardi incontreremo Bob Robertson, Don Savio, John Wells).

Uno dei registi di sandaloni era un figlio d'arte, Sergio Leone, che aveva ottenuto un discreto successo con "Il colosso di Rodi" e conosceva molti validi professionisti. 

Qui inizia la parte misteriosa della storia. Nel 1963 qualcuno va a vedere un film di Akira Kurosawa: La sfida del samurai, e ne consiglia la visione a Leone. Sono in tanti a contendersi questo onore (Enzo Barboni e Sergio Corbucci sono in pole position); Leone va, vede, e rimane entusiasta.
Decide di creare un trattamento su questo samurai doppiogiochista, e invece di ambientare il tutto a Creta o ad Atene, per l'ennesimo film in costume, sfrutta un altro filone in decadenza negli USA e abbastanza fiorente in Europa, a causa degli scenari perfetti offerti dall'Andalusia: il Western. All'inizio del 1964, con il titolo provvisorio de "Il magnifico straniero", la sceneggiatura è pronta e viene sottoposta alla Jolly Film. Qui il mistero continua: non si sa come, il tanto necessario acquisto dei diritti del film di Kurosawa non avviene, e, ottenuto un modesto budget grazie ad una coproduzione Italo-Tedesco-Spagnola (che giustifica i numerosi attori teutonici presenti), Leone girerà un film copiato scena per scena da quello di Kurosawa.

Gli attori da ingaggiare dovevano avere a quel punto una ferrea caratteristica professionale: costare poco. Gian Maria Volonté, grande attore di teatro, era nei guai finanziari per una produzione teatrale andata malissimo, e viene via con poco. Apparirà come John Wells, ed in un'intervista a "L'Unità" burlerà questo film che stava girando solo per soldi. Il protagonista, invece, sarà un osso duro da scegliere: costava troppo Richard Harrison, attore americano di Peplum, idem per Cliff Robertson. Charles Bronson e James Coburn nemmeno presero in considerazione la sceneggiatura. Lasciamo perdere Henry Fonda.

Un'addetta della William Morris di Roma, Claudia Sartori, propone per 15.000 dollari un attore che era stato protagonista in un western televisivo statunitense: Rawhide. Leone non è convinto pienamente, ma Clint Eastwood è alto e costa poco, e per ora va bene così.

Il set è in Spagna, ed è condiviso con una produzione (Le pistole non discutono), su cui la Jolly Film puntava molto di più e che aveva budget maggiore.  Cosa mancava? Uno scenografo, scelto per caso, Carlo Simi, che per colpo di fortuna era ferrato in architettura messicana, e un autore di colonne sonore. 
Ennio Morricone non colpisce Leone, anche se scoprono al primo appuntamento di lavoro di essere stati compagni di scuola elementare. Ma quello c'è.

Il film viene girato con grosse difficoltà, perché i co finanziatori spagnoli si tirano indietro, ma nell'estate 1964 la pellicola è pronta per il mercato. Viene acquistata da un solo cinema a Firenze, con grande opera di convincimento di Leone. Questi film rimanevano in cartello al massimo una settimana, e questo sembra il destino del "Magnifico straniero", che nel frattempo è diventato "Per un pugno di dollari". 

Gli incassi del fine settimana sono modesti, ma il lunedì accade qualcosa. 

Gli incassi salgono, e salgono nei giorni a venire. 

Leone convince il proprietario del cinema a tenere su il film, e dopo due settimane inizia a girare per Roma, dicendo che a Firenze il film è un successone (ed è vero); il passaparola aveva convinto sempre più gente a vedere quel film a basso costo. Che era, cinematograficamente parlando, rivoluzionario. Non seguiva i canoni del western americano, con i buoni e i cattivi lindi e pinti, e non seguiva il codice Hayes, che non permetteva di inquadrare contemporaneamente lo sparo e la vittima che cadeva. Non ci sono praticamente donne, e quelle che ci sono non corrispondono allo stereotipo di angelo del west. Il film "monta", e arriva nel grosso giro cinematografico con incassi eccezionali. 

E qui casca l'asino, anzi, casca il samurai. Perché i legali di Kurosawa si arrabbiano assai: il film è un plagio bello e buono, parte la causa di risarcimento danni. 

Cosa fanno gli avvocati della Jolly Film? Sostengono che c'è un archetipo comune ai due film, un archetipo occidentale. Gli avvocati nipponici ribattono: "Ah sì, e quale?". Silenzio. Tonino Valeri salva un po'il tutto, richiamando agli avvocati "Arlecchino servitore di due padroni" di Goldoni. 
Pari e patta, si conclude con un accordo tra le parti, Leone dovrà una bella fetta degli incassi a Kurosawa.

Il film parte per il mondo, partono le carriere di parecchie delle persone che abbiamo citato e parte anche la Trilogia del dollaro, di cui riparleremo.

Con questo "mattone" di post partecipo al Lunedì Film di Iome!