C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
«Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.
Chi abbita a sto monno senza er titolo o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo».
Co st’editto annò er Boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e arisposeno tutti: «È vvero, è vvero».
mannò ffora a li popoli st’editto:
«Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.
Chi abbita a sto monno senza er titolo o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo».
Co st’editto annò er Boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e arisposeno tutti: «È vvero, è vvero».
Giuseppe Gioacchino Belli, il 996, scrive questo sonetto (Li soprani der Monno vecchio) nel 1832. Partiamo, per il nostro Lunedì film grazie a IoMe, dal terzo verso, che è la battuta più celebre della nostra pellicola odierna. A Roma la citano continuamente, a volte con intento bonario, altre con crudeltà lucida. La crudeltà lucida con cui Onofrio del Grillo, marchese, evita un arresto irrimediabile per gli altri coinvolti ner fattaccio.
Perché riesce nell'intento? Facile, perché nell'anno di grazia 1808, nella Roma papalina sconvolta da Napoleone, essere il Marchese del Grillo permette qualsiasi trasgressione, anche il vestirsi da popolano e girare per osterie assieme al fido Ricciotto.
Agli occhi contemporanei, invece, l'arresto è evitato dal fatto che il Marchese del Grillo è Alberto Sordi.
"Ah... me dispiace. Ma io so' io... e voi non siete un cazzo!" Lievemente modificata rispetto all'originale. |
E'il 1981, e Monicelli e Sordi, due grandi cinici, due amanti di Roma, fanno coppia in una commedia amarissima sul ruolo del potere e dei privilegi acquisiti. Monicelli dirigerà l'anno successivo quella che è considerata l'ultima "Commedia all'italiana", il secondo atto di Amici Miei, e Sordi viene dalle esperienze degli anni settanta, in cui è stato protagonista di film molto più impegnati e impegnativi di quelli degli esordi. I due avevano già affrontato la prova impegnativa de "Un borghese piccolo piccolo" cinque anni prima e sconvolgono le carte in tavola. Va detto subito: il film funziona a tratti, ma in quei tratti ha fantastici lampi di genio.
Del primo vi ho già parlato, ma non posso non citare il processo ad Aronne Piperno, in cui il povero ebanista ebreo (uno degli ultimi ruoli di Riccardo Billi) non riesce ad avere giustizia poiché il marchese ha corrotto chiunque per dimostrare che a Roma ha ragione chi è ricco. Il gesto finale del Marchese, che paga il doppio del dovuto all'artigiano e gli regala un piccolo podere per rifonderlo dell'umiliazione subita in quanto ebreo (pece e piume, giusto per) non fa che confermare la personalità megalomane di Onofrio, assurtosi a censore di un sistema di cui fa parte con grandissima soddisfazione.
Altro momento magico è la scena di Gasperino il Carbonaro che licenzia l'amministratore infedele (Se tu me freghi qui, me freghi su tutto! Perciò sei un ladro; sei ladro tu, tu padre e tu nonno e io ve licenzio a tutti e tre) e quanti ricordi di alcune pagine del Gattopardo.
Accanto a Sordi, che, come al solito giganteggia impedendo a chiunque altro di rubarli anche un angolino di scena, il già citato Riccardo Billi, il papa Pio VII di Paolo Stoppa (l'unico a poter tener testa al protagonista) che ha il pesante compito di pronunciare "Non possiamo. Non dobbiamo. Non vogliamo", il Don Bastiano di Flavio Bucci, il personaggio forse più drammaticamente autentico del film, un inedito Aurelio "Cochi" Ponzoni tra la fine del duo e la riscoperta degli anni novanta nel ruolo del cognato Rambaldo. Cioè un cast per cui oggi bisognerebbe fare carte falsissime.
Il Marchese del Grillo è un film profondamente romano, della Roma sparita di Roesler Franz e della Roma corrotta di Belli, dei nobili e del popolino, del Papa Re e della Rivoluzione francese che avanza facendo finire il tutto. Superstiziosa, piccina, ottusamente conservatrice, la Roma papalina è il Marchese del Grillo, e solo Sordi poteva dare corpo a tutto questo. Tutto, scenografie stupende, costumi sontuosi, trama non sempre adeguata, sono semplici accessori alla recitazione di Sordi e alla regia di Monicelli. Al loro cinismo e alla loro crudeltà.
Chiudiamo con una nota: la celebre battuta non è una novità nel cinema italiano. La dice Pippo Franco nei panni di Romolo in un film del 1976 Remo e Romolo - Storia di due figli di una lupa.
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